La tesi di Gianluca Viviani: osteopatia nelle sclerosi multipla

Osteopatia nella sclerosi multipla: una tesi da leggere

Inauguriamo la rubrica “Alla scoperta delle migliori tesi di osteopatia” con l’intervista a Gianluca Viviani in merito alla tesi che ha concluso il suo percorso di studi in osteopatia. Si tratta di un trial clinico con controllo placebo che ha testato l’efficacia del trattamento osteopatico nei pazienti con sclerosi multipla.

Una tesi non è mai facile da fare.
Fare una tesi sperimentale ancor meno.
Fare una tesi sperimentale durante il periodo covid è ai limiti del possibile.

È servita tenacia, e Gianluca ne ha avuta tanta. E dietro la tenacia c’è passione, umiltà e curiosità. 3 aspetti fondamentali per un vero osteopata.

Fig 1. Esecuzione di uno dei test osteopatici di entrata e uscita, all’interno del protocollo. Nello specifico: test TART (tessuto-asimmetria- mobilità- dolore) in zona rachidea.

Ciao Gianluca, innanzitutto complimenti per l’eccellente lavoro di tesi, una delle migliori che ho letto in questi ultimi 3-4 anni. La prima domanda riguarda la “genesi” di questo progetto di tesi, dunque come è nata l’idea di un trial clinico di osteopatia con pazienti affetti da sclerosi multipla?

Grazie mille! Bhe, diciamo che l’idea è venuta a formarsi piano piano e non all’improvviso. Inizialmente ho escluso gli argomenti già trattati ampiamente nell’ambito, come l’OMTh in relazione a lombalgia e cervicalgia; parimenti ho scartato quelli che avevano pochissime o nulle evidenze in letteratura. In più le interazioni tra psiche, sistema nervoso e tocco, sono da sempre un argomento che mi affascina e intriga tuttora… ed ecco come è nata l’idea di testare l’efficacia dell’osteopatia in persone con sclerosi multipla.

I nostri lettori potranno leggere l’estratto della tesi cliccando qui, ma ti chiederei una sintesi della metodologia e del “flusso di lavoro” dello studio?

Ottima domanda, il focus sulla metodologia è stato uno dei nostri obbiettivi principali, in quanto lo studio è stato ideato come uno studio pilota, per verificare la sua fattibilità. Allora, in maniera molto sintetica: una volta trovata la popolazione d’interesse e selezionata tramite criteri d’inclusione/esclusione è stata sottoposto loro il consenso informato, dopodiché abbiamo formato degli accoppiamenti tra soggetti con caratteristiche simili, in modo da avere un’assegnazione randomica equa per caratteristiche rilevanti, nei gruppi. Finita la randomizzazione abbiamo organizzato una visita neurologica registrando i parametri d’interesse e somministrato i questionari. Stessa cosa è stata svolta alla fine delle 5 settimane di trattamento. Per assicurare che non fossimo condizionati dall’appartenenza ai gruppi e dall’esito delle prime misurazioni, la randomizzazione è stata eseguita da me e non riferita al neurologo fino a fine dello studio, e viceversa per le misurazioni pre-trattamento, in modo da non influenzare le mie aspettative nel contesto di trattamento.La durata di ogni seduta osteopatica è stata di 45 minuti, con una routine ben precisa: anamnesi, protocollo di test osteopatici di entrata/uscita, e trattamento vero e proprio in black-box. Non seguendo un protocollo per il trattamento è stato complicato standardizzare la terapia simulata/placebo. Quindi per lo sham abbiamo optato di posizionarci come per eseguire BLT, senza però nessun intento terapeutico (fig 2).

Fig 2. Trattamento di terapia simulata (sham): il posizionamento dell’operatore è nella regione corporea della disfunzione somatica, ma la tecnica è svolta senza alcun intento terapeutico.

Quali risultati avete avuto?

Nella sperimentazione abbiamo voluto valutare se il trattamento osteopatico migliorasse alcuni aspetti della sintomatologia correlata alla sclerosi multipla. Diciamo quindi che abbiamo ottenuto diversi risultati riguardo ad ogni sintomo valutato che, per evitare un “papiro”, riassumo brevemente. Partiamo, innanzitutto, dalle notizie meno buone: i valori del grado di disabilità, spasticità, deambulazione, mobilità degli arti superiori, dolorabilità e ansia non erano differenti tra i due gruppi. Quindi è ipotizzabile che il trattamento osteopatico non abbia inciso, né positivamente né negativamente, sul decorso di questi sintomi e abilità. Le notizie buone sono, invece, che il trattamento osteopatico ha miglioramento la sensazione di fatica percepita dai soggetti e ne ha migliorato significativamente la qualità di vita. Ci tengo però a fare una precisazione, in quanto questi risultati vanno presi molto con le pinze! Questo per diversi motivi: il primo è di natura statistica, dato che il campione a nostra disposizione era molto piccolo, possibili misurazioni estreme potrebbero aver influito su alcuni risultati falsandoli. Inoltre, il campione poco numeroso non permette assolutamente di estendere i risultati ad una popolazione più ampia. Il secondo motivo riguarda aspetti più metodologici della ricerca, come per esempio la strutturazione di uno sham corretto in assenza di specifiche linee guida (ma su questo punto sono fiducioso che la ricerca nell’ambito farà dei passi avanti nei prossimi anni)

 

Nella ricerca non si rivela tutte le “pieghe” degli incontri terapeutici, mi riferisco al rapporto tra operatore e paziente e all’eventuale desiderio da parte dei pazienti di proseguire con i trattamenti anche dopo la fine dello studio stesso. Cosa ci puoi dire a riguardo?

Sicuramente la parte relazionale con il paziente è quella più “umana” di tutta la ricerca. Ammetto che inizialmente un po’ di timore ad essere impreparato nel relazionarsi con persone affette da una malattia invalidante c’era. Invece, fin dal primo incontro, è successo tutt’altro e ho scoperto che i timori erano totalmente infondati. È davvero incredibile come l’entrare in relazione, sia parlando che col tocco, abbatta un sacco di pregiudizi che accompagnano questa come tante altre condizioni! Per quanto riguarda la continuazione dei trattamenti avevo dato la disponibilità, a chi nel gruppo placebo, di fare 5 sedute gratuite una volta finita la sperimentazione. Quindi, dopo la comunicazione dei risultati ottenuti, qualche persona (anche del gruppo sperimentale) ha deciso di continuare con l’osteopatia. Attualmente seguo un paio di ex-partecipanti e il lavoro con loro non si concentra solo sulla sintomatologia della SM, ma soprattutto su altre “problematiche” più comuni. Questo mi ha fatto spesso ragionare sul fatto che la malattia può essere, talvolta, un pezzettino (più o meno grande) della vita della persona, ma non lo è mai la sua globalità!

Fig 3. Gianluca Viviani, autore della tesi.

Quali difficoltà avete incontrato da un punto di vista operativo? (relazioni con i medici, gestione degli appuntamenti, ecc)

Eheh, sicuramente non ho scelto il periodo migliore per laurearmi! La pandemia è stata sicuramente l’aspetto più difficile da gestire e che ha messo a dura prova la riuscita dell’idea. All’inizio già la parte di andare ad esporre e argomentare la proposta a medici sconosciuti mi sembrava qualcosa di difficoltoso. Una volta trovato il neurologo con cui collaborare, immaginavo sarebbe stato tutto in discesa, dato che raggiungere i pazienti non sarebbe stato più un problema. Invece poco prima del reclutamento ci si è messo di mezzo il Covid. L’ospedale ovviamente non era più un luogo facilmente raggiungibile, inoltre tutti gli sforzi, sia a livello di ricerca che di impegno sul “campo”, erano giustamente incentrati a combattere il nuovo virus. Quando però, verso l’estate, la situazione è iniziata a migliorare, imperterriti, abbiamo ripreso con il nostro progetto anche se i tempi ormai si erano molto più che dimezzati. Quindi, rispetto all’idea iniziale abbiamo dovuto apportare qualche riadattamento come la cancellazione del followup di monitoraggio, ma nel complesso la struttura portante è rimasta la stessa. In tutto questo devo ringraziare caldamente sia il dottor Ribizzi, che il relatore prof. Borzone per l’impegno che hanno messo nella la buona riuscita del progetto, perché, neanche da dire, senza di loro realizzare un lavoro sperimentale non sarebbe stato possibile!

In letteratura sono presenti 3 soli studi presenti in letteratura in questo ambito (le cui sintesi con riflessioni critiche sono disponibili cliccando qui). A mio parere il tuo lavoro, da un punto di vista metodologico, è a pari merito con il migliore dei 3 lavori pubblicati (Cardano et al del 2018) che è stato fatto sempre alla IEMO. Da dove deriva l’interesse della IEMO per questo ambito? Inoltre, avete pensato di pubblicare la tesi? Se si, quali difficoltà avete incontrato in tal senso? Infine, cosa ne pensi della qualità metodologica dei 3 studi su citati?

Rispondo partendo dall’ultima domanda. Allora, gli studi da te citati, sono stati d’ispirazione al nostro lavoro ed hanno messo in luce risultati molto positivi e utili sia a livello clinico che per la “reputazione” e validità scientifica dell’osteopatia. Tuttavia, penso che l’entusiasmo con cui si guardano questi risultati sia eccessivo. Sicuramente, i colleghi che hanno lavorato a questi progetti, hanno messo impego e passione per scoprire qualcosa in più sulla disciplina, cosa non scontata e importantissima per il riconoscimento scientifico e sociale della professione. Purtroppo, però con una metodologia traballante i risultati che si ottengono possono dirci poco e, nel peggior caso, darci anche informazioni fuorvianti. Sono convinto che i futuri studi saranno più affidabili, anche perché spero non ci si accontenti di poche evidenze molto discutibili, solo perché fanno comodo o sono in linea con nostre idee. Sicuramente come hai detto te, lo studio di Cordano è il migliore dei tre ed è stato la principale linea guida per il nostro studio. Già da qui però possiamo notare alcune discrepanze tra il loro e il nostro lavoro, come per esempio i risultati ottenuti riguardo l’ansia. Purtroppo, nel mio percorso accademico non ho avuto il piacere d’incontrare il dottor Cordano come professore, dato che non insegnava più all’interno dell’istituto quando mi sono iscritto. Questo è un vero peccato, anche perché un confronto diretto con una persona esperta come lui sarebbe stato, senza dubbio, interessante e formativo. Per quanto riguarda, invece, la pubblicazione sicuramente l’idea c’è. Per l’istituto è stato realizzato l’estratto, in modo da rendere i risultati della tesi più leggibili. Quindi, diciamo che la voglia di pubblicare il lavoro c’è sempre stata. Ovviamente, tutte le parti coinvolte nella realizzazione del progetto dovrebbero essere d’accordo all’invio ad una rivista. Su questo credo che non ci sia nessun problema, se non anzi entusiasmo. Il problema però è che essendo stato realizzato come lavoro di tesi si sono dovuti saltare alcuni passaggi burocratici essenziali per la pubblicazione, come per esempio la registrazione dello studio clinico. Ma mai dire mai…

Immagina di iniziare un nuovo trial clinico identico a questo, facendo tesoro di quel che hai imparato… che cosa cambieresti? Quali sono gli aspetti (metodologi e non) a cui faresti più attenzione?

Sicuramente di criticità nel lavoro ce ne sono state. Una che mi viene in mente, in questo momento, è la somministrazione dei questionari. Non pensavo che utilizzare un questionario fosse cosa difficile. Invece a posteriori affermo l’opposto! È molto complicato somministrare nel modo corretto e secondo le procedure, senza influenzare l’altro. Forse sarebbe stato meglio se lo avesse fatto personale formato, come uno psicologo. Nel caso specifico poi, il questionario per l’ansia utilizzato (BAI test) non era, forse, il più adatto: alcuni item indagavano aspetti che potevano essere ricondotti alla sintomatologia della sclerosi multipla, invece che direttamente all’ansia (per esempio la sensazione di instabilità o di vertigini). Rimanendo sempre in tema questionari, tornassi indietro, ne inserirei uno per valutare se i soggetti avessero capito a quale trattamento fossero stati assegnati (OMT o placebo). Altri punti che rivedrei poi ce ne sono svariati, come la strutturazione del trattamento sham e l’utilizzo di test palpatori che abbiano qualche evidenza scientifica più robusta. Nel primo caso soprattutto, mi assilla il dubbio che un trattamento BLT (o comunque tecniche indirette) vs uno sham con posizionamento non intenzionale, non siano il giusto metro di paragone per testare l’efficacia di un trattamento osteopatico: in quanto, nella prima situazione (pensando di svolgere la tecnica) c’è la possibilità che entri in gioco un effetto ideomotorio, mentre nel secondo caso no. Il rischio è quindi di paragonare un movimento vs una staticità, e non l’efficacia della “specificità” osteopatica. Ma comunque, credo che tutti questi punti siano problemi che difficilmente si risolvano da soli, ma serve il contributo di tutta la comunità osteopatica. Purtroppo, ad oggi, si sa ancora troppo poco riguardo alcuni concetti chiave dell’osteopatia e dell’efficacia/funzionamento di singole metodiche. Il pericolo è quindi di inglobare in un trattamento diverse tecniche ed etichettare il tutto come efficace o non efficace. Tuttavia, credo che, anche grazie al riconoscimento della professione, nei prossimi anni si faranno dei bei passi in avanti. Sono convinto, infine, che la ricerca clinica sia il mezzo che abbiamo per capire davvero l’osteopatia, che ad oggi, rimane in gran parte incompresa. Personalmente trovo l’esplorazione di questo mondo misterioso e inesplorato incredibilmente avvincente e affascinante!

Ringrazio il collega Gianluca Viviani che con questa sua intervista ha inaugurato la rubrica sulle migliori tesi di osteopatia , che continua con l’intervista al collega Massimiliano Zucchi e la sua tesi sperimentale relativa al trattamento osteopatico nel disturbo d’ansia generalizzato.

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A cura di Giandomenico D’Alessandro

 

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