Osteopatia nel dolore da arto fantasma

Intervista al gruppo di ricerca che ha prodotto un’interessante tesi sul contributo osteopatico nel dolore da arto fantasma

Dopo l‘intervista a Massimiliano Zucchi per la sua tesi di osteopatia nel disturbo d’ansia generalizzato, proseguiamo con la rubrica delle migliori tesi di osteopatia. In questo caso oltre che ottimamente pianificata e scritta, ci troviamo di fronte ad una tesi decisamente originale. Si tratta di un RCT in cui i colleghi del TCIO Matteo Vaccari, Camilla Romano, Giulia Guidi, Francesco Massi, guidati dal relatore Gianpaolo Tornatore hanno indagato l’efficacia del trattamento osteopatico sulla riduzione del dolore e miglioramento della qualità della vita in pazienti con amputazione maggiore di arto inferiore.

 

Nota di merito alla completezza delle informazioni anche di aspetti che scarsamente vengono riportati (es, arruolamento pazienti) e in termini metodologici (es, per l’utilizzo della sham therapy nel gruppo di controllo placebo).

 

Vi lascio all’intervista!

 

Ciao ragazzi, devo ammettere che non ho mai pensato ai possibili contributi osteopatici nel dolore da arto fantasma. Come vi è venuta questa domanda di ricerca così particolare?

 

Questa potrebbe essere colpa mia (Matteo, nda). Sono tecnico ortopedico e da quando ho cominciato ad esercitare la professione, uno dei miei focus principali è stato il paziente amputato.

Stare vicino a persone che hanno subito un’amputazione (fig 1) mi ha fatto conoscere aspetti della loro vita e della loro disabilità fisica in modo molto profondo e l’arto fantasma è un tema ricorrente: quasi tutte le persone che hanno subito un’amputazione soffre di dolore all’arto fantasma (si stima che questa cifra sia molto vicina all’85%) e questo disturbo a volte è talmente invalidate che impedisce l’utilizzo della protesi e di una normale vita sociale. Mi sono sempre chiesto, praticamente dal primo giorno di lezione, se l’osteopatia potesse aiutare anche le persone che ne soffrono quindi, quando è arrivato il momento di scegliere il titolo della tesi l’ho proposto ai miei colleghi che hanno subito accettato: stavamo tutti cercando un argomento originale, che quindi non fosse già stato studiato e analizzato da molti punti di vista, e che potesse cercare di dare un contributo ad una problematica reale.

 

Fig 1 – Matteo Vaccari (che è anche tecnico ortopedico) al lavoro per allenamento al cammino in seguito alla prima applicazione di protesi per amputazione transfemorale.

 

Ci fate una sintesi di quel che avete fatto?

 

Il nostro progetto è nato da una semplice domanda: l’osteopatia può aiutare nella gestione del dolore da arto fantasma? Per risponderci abbiamo ideato questo studio. Grazie al gruppo Facebook “Noi Amputati” e al cento dove lavora Matteo, abbiamo reclutato delle persone con un’amputazione maggiore d’arto inferiore. Poi grazie ad un software di randomizzazione queste persone sono state suddivise in due gruppi: il gruppo OMT (trattamento osteopatico) e il gruppo SHAM (placebo).

Il gruppo OMT ha ricevuto 4 trattamenti osteopatici con cadenza settimanale in cui ogni operatore ha avuto modo di costruirsi il suo personale ragionamento clinico e trattamento. Per questo gruppo infatti le sedute non erano protocollate ma il trattamento veniva costruito in base alle disfunzioni somatiche rilevate dall’operatore.

Il gruppo SHAM, o placebo, invece ha ricevuto 4 sedute di trattamento placebo. Per farla facile: prima di iniziare il periodo di trattamento abbiamo protocollato la seduta placebo, in cui le nostre mani rimanevano ferme e “distratte” su varie parti del corpo, uguali per tutti i pazienti.

A tutti i pazienti sono stati somministrati tre questionari (SF-36, SF-MPQ e VAS) all’inizio del primo trattamento, al termine dell’ultimo trattamento ed a distanza di un mese dall’ultimo trattamento (folow-up).

 

 

Fig 2 – gli autori della tesi. Da sinistra: Matteo Vaccari, Giulia Guidi, Camilla Romano, Francesco Massi.

 

 

Che risultati ci sono stati? E quali erano le vostre aspettative prima dell’inizio del lavoro?

 

Quando abbiamo iniziato lo studio avevamo grossi dubbi sui risultati. Da una parte eravamo consapevoli della nostra poca esperienza come osteopati, dall’altra sapevamo che il dolore dell’arto fantasma è un disturbo molto complesso di cui tutt’ora non si conoscono a pieno i meccanismi fisiopatologici. Abbiamo quindi cominciato i trattamenti consci che avremmo potuto ottenere una risposta negativa alla nostra domanda di partenza. Dobbiamo ammetterlo: quando i pazienti del gruppo trattamento hanno iniziato a riferirci un miglioramento eravamo sopresi. Ma la vera sorpresa è arrivata quando abbiamo analizzato i questionari e abbiamo potuto constatare che la variazione della percezione del dolore del gruppo OMT era statisticamente significativa (posto p<0,05) mentre il gruppo SHAM era rimasto praticamente invariato. In particolare 4 item hanno ottenuto questo risultato: l’item dolore fisico dell’SF-36, il punteggio totale e punteggio fisico dell’SF-MPQ (fig 3) e la VAS.

 

Fig. 3 – confronto SF-MPQ punteggio totale tra gruppo OMT e SHAM.

 

Nel periodo dei trattamenti e fino al follow-up questi pazienti facevano una qualche terapia?

 

No, nessun paziente per i due mesi del progetto si è sottoposto ad altre terapie. L’assunzione di farmaci per dolore neuropatico e la partecipazione ad altre terapie (fisiche o chirurgiche) erano motivo di esclusione dal nostro progetto. Tutti i pazienti erano informati di questa cosa e consapevoli che potevano tranquillamente sospendere i nostri trattamenti qualora ci fosse la necessità di assumere questa tipologia di farmaci o sottoporsi ad altra tipologia di trattamento. Il nostro obiettivo naturalmente era quello di cercare di togliere quante più influenze possibili al dolore per valutare in modo più chiaro i nostri trattamenti.

 

Secondo voi quale tipologia di terapia si potrebbe meglio “incastrare” con quella osteopatica per poter ottimizzare al massimo i risultati?

 

È una domanda molto interessante questa, visto l’indirizzo che sta prendendo la nostra professione che sempre di più si inserisce in contesti multidisciplinari. In realtà non pensiamo ci sia una terapia migliore dell’altra: quello che ci dice la letteratura ad oggi è che tutte le tipologie di trattamento hanno buoni risultati e quindi l’osteopatia potrebbe benissimo essere di supporto a terapie farmacologiche, chirurgiche e riabilitative. Dalla nostra esperienza è emerso un fatto importante: questa tipologia di dolore è molto personale e viene profondamente influenzato dal vissuto del paziente (per esempio un paziente ha riferito che il suo dolore dell’arto fantasma era lo stesso che ha provato quando ha fatto l’incidente che lo ha portato all’amputazione; un altro ha riferito che nelle giornate con molto vento/temporali forti il dolore aumentava). Questo ci fa capire che ogni terapia dovrebbe essere cucita sulla persona e, se ci pensiamo, l’osteopatia ha proprio questo scopo. Quindi potenzialmente potremmo affiancarla ad ogni tipologia di trattamento.

 

Fig. 4 – prova della protesi per amputazione transradiale in età pediatrica per la reintroduzione delle attività sportive

 

 

Ottima la strategia placebo della sham therapy che avete applicato. Nell’intervento sham, gli operatori come si distraevano dall’eseguire involontariamente la tecnica? Es, in alcuni studi si conta mentalmente da 1000 a 0, sottraendo 7 unità, così da tener impegnato mentalmente l’operatore ed evitare che porti un po’ di attenzione sulle mani…

 

In realtà questo non lo abbiamo protocollato. Ognuno ha trovato le proprie strategie: chi cantava nella sua mente, chi descriveva mentalmente tutti gli oggetti presenti nella stanza e chi contava. Dobbiamo ammetterlo, i trattamenti placebo sono stati i più difficili. Dal punto di vista umano ci sentivamo “in colpa” (nonostante i pazienti erano stati informati durante l’intervista iniziale che sarebbero potuti capitare nel gruppo SHAM) e dal punto di vista osteopatico è davvero contro intuitivo non “ascoltare” le proprie mani.

 

 

Dato che è una tesi di osteopatia, suggerisco di inserire un paragrafo relativo alla parte più strettamente osteopatica (es, disfunzioni somatiche riscontrate, tipologia e numero di tecniche). Dato che ci siamo ve lo chiedo ora: avete raccolto qualche dato in merito?

 

In realtà no, non abbiamo raccolto dati di questo genere. Forse questa è una pecca metodologica che possiamo migliorare in futuro, ma quando all’inizio ci siamo dati delle regole abbiamo deciso di rispettare i principi cardine dell’osteopatia e quindi ogni operatore ha valutato e trattato secondo un suo ragionamento clinico. Ora che ci pensiamo, durante il periodo dei trattamenti, non ci siamo nemmeno confrontati granché sulle disfunzioni che abbiamo trovato (ci concentravamo di più sui cambiamenti che ottenevamo/non ottenevamo) e questo probabilmente ci ha aiutato ad evitare il bias mentale per cui avremmo ricercato e trovato le disfunzioni più comuni.

Per quanto riguarda la tipologia di tecniche le abbiamo utilizzate tutte, ma confrontandoci ci siamo accorti che c’era una predilezione per le tecniche indirette, soprattutto sulla fascia. Ci trovavamo di fronte comunque a persone che avevano subito una chirurgia “estrema” con un grande impatto sul fisico. I pazienti stessi ci riferivano a fine trattamento di sentirsi meglio e più rilassati e quindi abbiamo ipotizzato, speculando, ad un’importante attività del sistema nervoso conseguente all’amputazione per cui ci sembrava più idoneo utilizzare tecniche indirette. La quantità invece era variabile in base alle esigenze.

 

Nel vostro studio avete utilizzato 3 outcome soggettivi. Se doveste pensare di utilizzare un outcome oggettivo (o “più oggettivo”), quale potrebbe essere considerata la particolare condizione clinica di questi pazienti?

 

Questa è la domanda che ci ha messo più in crisi di tutte. Come detto prima, ci siamo approcciati ad una tipologia di dolore estremamente soggettiva. Le modalità di presentazione, la frequenza e l’intensità sono talmente varie che spesso avevamo l’impressione di trattare persone con disturbi diversi. Inoltre è un dolore che si presenta in maniera incostante e durante i trattamenti molto spesso i pazienti non percepivano il dolore. Quindi con gli strumenti che avevamo a disposizione (le nostre mani e la voce dei pazienti) era impossibile oggettivare il dolore.

Se ci è permesso di pensare in grande si potrebbero misurare outcome del sistema nervoso autonomo (come frequenza cardiaca e pressione arteriosa) o esami strumentali per capire se avvengono delle modificazioni a livello periferico e centrale.

 

Mi chiedo che tipo di difficoltà in termini operativi ci siano nel trattare un paziente protesizzato…

 

Grazie a questo studio abbiamo imparato a metterci in un’ottica diversa. Ci siamo trovati costretti ad uscire dall’impostazione accademica del trattamento. Ovviamente tutti i pazienti venivano trattati senza protesi: per quanto la tecnologia ci sta venendo incontro la protesi è uno strumento per la dinamica, da sdraiati serve a poco. Inoltre, vista la nostra poca esperienza, ci siamo trovati in difficoltà quando non avevamo un arto controlaterale da confrontare e, soprattutto, quando abbiamo capito che l’amputazione era la nuova fisiologia del paziente e bisognava quindi distinguere un adattamento “fisiologico” conseguente alla mancanza di un arto, da una disfunzione che in quel momento stava pesando sullo stato di salute del paziente.

 

 

Quali sono stati i feedback “extra-risultati” da parte dei pazienti? Sono curioso di sapere cosa vi hanno detto, sia quelli del gruppo osteopatico che quelli del gruppo sham.

 

La maggior parte dei pazienti ha aderito al progetto con molto entusiasmo. La categoria delle persone con amputazione (e in generale chi ha una disabilità fisica o mentale) non è molto “studiata”. Esistono ancora tantissimi interrogativi e la ricerca è poca. Quindi ogni volta che c’è una novità, queste persone reagiscono bene e si rendono disponibili. Tra l’altro alcuni partecipati avevano già sperimentato altre terapie in passato con scarsi risultati e quindi riponevano grandi aspettative in questo studio.

Chi era nel gruppo OMT ha anche riferito benefici in altri aspetti della loro vita, che per ovvi motivi non abbiamo misurato ma durante i trattamenti indagavamo, come per esempio lombalgie o dolori muscolari. I partecipanti al gruppo placebo, invece erano man mano più scettici: ci chiedevano se sarebbe arrivato il cambiamento o addirittura si sforzavano nel cercare qualcosa che fosse cambiato. Continuare a parlarci e rassicurarli, come già detto, è stato l’aspetto più difficile di tutto questo lavoro.

 

 

Grazie per questo bel lavoro. C’è un intero mondo da scoprire dietro i pazienti amputati e protesizzati: dalla lettura della vostra tesi ho appreso che i numeri sono alti e in crescita… Ultima cosa: avete intenzione di pubblicare la vostra tesi o comunque di continuare il lavoro incrementando numero di pazienti e avere risultati ancora più robusti? 

 

Nonostante siamo consapevoli che il nostro studio non sia nemmeno una goccia in mezzo all’oceano, siamo soddisfatti. Uno dei nostri obiettivi era dare importanza a un dolore, come dice il suo nome, fantasma. In passato è stato spesso stigmatizzato e sottovalutato. Nonostante negli ultimi anni la ricerca sul dolore ci ha fatto capire che esistono meccanismi fisiopatologici alla base, il dolore dell’arto fantasma viene vissuto ancora come una sorta di tabù: se ne parla poco e spesso le persone non si capacitano di provare dolore in una parte del corpo che non esiste più.

Ma in generale si parla poco di chi ha una disabilità fisica e ancora meno di chi ha subito un’amputazione, perché sono minoranze e gli sforzi si concentrano tutti su problematiche che hanno un impatto maggiore sulla popolazione mondiale. Pur avendo pochissima voce in capitolo per la nostra brevissima esperienza, siamo fermamente convinti che l’Osteopatia dovrebbe concentrarsi anche su chi ha una disabilità fisica, ora che siamo diventati una Professione Sanitaria più che mai.

Per questo motivo continueremo a lavorare con il Dipartimento di Ricerca della nostra scuola (TCIO – Istituto di Osteopatia Milano) per cercare di pubblicare l’articolo e continuare il progetto in modo da reclutare più Osteopati e più pazienti in modo da coprire più territorio possibile.

 

 

Se qualche collega o studente fosse interessato alla lettura integrale della vostra tesi, come può fare?

 

Ovviamente saremmo felici di condividere il nostro lavoro con altri colleghi e professionisti sanitari, per farlo scriveteci pure un’email a matteo.vaccari@outlook.com, saremo felici di rispondervi e confrontarci!

 

 


 

Ringrazio tutto il gruppo di ricerca per aver condiviso i retroscena del loro lavoro.

 

Nella prossima tesi vedremo qual è il contributo osteopatico nelle donne vittime di violenza domestica.

 

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A cura di Giandomenico D’Alessandro

 

 

 

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