Com’è percepita l’osteopatia dal paziente con l’ansia? Quello che gli studi non dicono.

“[…] Alice, si percepisce che è una cosa molto importante per te e che hai un punto di vista “privilegiato” sulla questione in quanto hai la “doppia prospettiva”. Quello che dici, infatti, mi fa molto riflettere. 

Ti chiedo: ti va di mettere per iscritto le tue esperienze e le tue riflessoni in modo tale da far arrivare questi spunti al maggior numero di osteopati? Potrebbero accendersi in loro alcune riflessioni sul tema e, in generale, sulla pratica clinica osteopatica…”

 

Qualche giorno fa Giandomenico ha condiviso e commentato uno studio1 sugli effetti del trattamento osteopatico in pazienti con disturbo d’ansia generalizzato.

 

Al di là del contenuto del singolo articolo, non è la prima volta che l’argomento viene trattato2-8 partendo da due assunti: 1) i disturbi d’ansia sono corredati da una sintomatologia fisica riconducibile allo spettro di una marcata simpaticotonia (insonnia, tachicardia, dispnea, rigidità muscolare, riduzione del controllo sfinteriale, alterazione della temperatura corporea), parallelamente, 2) è sempre più evidente il ruolo del trattamento osteopatico nello stimolo del sistema nervoso parasimpatico9-13. Sarebbe dunque lecito teorizzare la possibilità di utilizzare l’osteopatia come terapia complementare per la gestione di tale condizione clinica.

 

A questo punto, ritengo necessario continuare facendo una confidenza: non ho letto quanto scritto nell’articolo sopracitato con la solita moderazione con la quale normalmente mi approccio alle pubblicazioni. Ho letto con la fame di chi, avendo sofferto di una patologia, ha passato mesi o anni a rimbalzare da un sito all’altro per poterne sapere di più, con fare a volte speranzoso a volte disperato, fino a ritenersi massimo luminare honoris causa della propria condizione clinica.

 

Il nostro lavoro ci porta spesso a notare come il trattamento del paziente inteso come “corpo” passi anche attraverso una fine e complessa interazione con la sua sfera emotiva e psicologica, e come ho avuto occasione di riscontrare in varie circostanze, avere la possibilità di guardare ad una problematica dal punto di vista del paziente è un’occasione preziosa. Mi sono sentita chiamata in causa, prima come (ex?) affetta da un disturbo d’ansia e attacchi di panico, poi come osteopata alla quale è capitato di trattare persone nella stessa condizione.

 

A questo proposito, ho sollevato dei dubbi, non riguardanti la possibile efficacia del trattamento, ma relativi alla maniera tendenzialmente asettica con la quale l’argomento viene trattato, tralasciando un aspetto a mio avviso fondamentale in questo frangente: ai pazienti ansiosi il trattamento non piace.

 

L’individuo con disturbo d’ansia è totalmente, mi si conceda l’espressione, succube del proprio ortosimpatico, inteso nella maniera più didascalica possibile. Se nelle lezioni sul Sistema Nervoso si esemplifica la reazione “Fight or Flight” parlando dell’uomo primitivo che reagisce all’attacco di una belva feroce, nella vita di tutti i giorni è raro sperimentare sensazioni simili, se non in poche occasioni e per limitati periodi di tempo. Chi soffre d’ansia o di attacchi di panico possiede un corpo che innesca queste stesse reazioni più o meno a proprio piacimento, per periodi prolungati e in assenza di pericoli reali, rendendo terrificanti anche circostanze solitamente neutrali o addirittura piacevoli, e portando a tagliare drasticamente intere fette di quotidianità fino a far diventare la propria nicchia di comfort sempre più piccola. Nella pratica, significa essere a cena con gli amici in un ristorante e iniziare a percepire i sintomi di un infarto dopo la seconda forchettata, fare un viaggio all’estero e provare, da adulti razionali, la stessa sensazione di abbandono totale e disperato di un bambino che smarrisce tra la folla la propria madre, iniziare a masticare questa sensazione di disagio e terrore ingiustificato ogni giorno, sempre più a lungo, fino a non ricordare più come ci si senta a provare l’automatismo mentale di un individuo normale che fa cose normali. Ogni riserva di energia è interamente devoluta a questo incessante lavorìo mentale, portando il corpo e la mente a sperimentare una sensazione di sfinimento e irritazione senza tregua.

 

Il trattamento osteopatico potrebbe essere altamente terapeutico a questo punto e, da paziente, sentivo di averne tremendamente bisogno, ma non potevo fare a meno di avvertirlo come una violazione. “Intrusivo” è il termine che ho utilizzato parlandone con il collega. Come se mi stessi sforzando con tutta me stessa di tenere insieme le parti del mio sistema, che parevano correre via a ogni momento come cavalli imbizzarriti, e qualcuno dall’esterno avesse la presunzione di scombinare il mio equilibrio. Soffrivo nell’utilizzo di certi tipi di approcci, non tolleravo sedute lunghe e operatori che fossero troppo “presenti”, sia dal punto di vista palpatorio, sia da quello emotivo (a maggior ragione se tentavano d’instaurare un dialogo o di “smascherare” la mia condizione).

 

Non ho la presunzione di estendere mie percezioni soggettive ad un’intera fascia di popolazione, né di erigermi ad esperta della materia (anzi, delego molto volentieri ai professionisti competenti), ma scrivo semplicemente per sottolineare quanto il nostro ruolo di osteopati sia delicato nella gestione di pazienti con disturbi della sfera psicologica. Da operatrice, mi sono sentita onorata nel poter dare un contributo anche minimo al benessere di individui in questa condizione, fosse stato anche solo quello di poterli meglio indirizzare, ma noto quanto in questo ambito le pubblicazioni fatte rispecchino solo la superficie clinica della questione (com’è giusto che sia, se l’obiettivo è creare un precedente statistico), senza mai menzionare quanto siano cruciali, ai fini non della riuscita, ma della continuità della terapia, l’approccio e il comportamento dell’osteopata.

 

Con Giandomenico riflettevamo su quanto sia difficile talvolta anche solo iniziare il trattamento con soggetti ansiosi, e se ci possano essere dei metodi sicuri e “collaudati” per interagire con loro per metterli a proprio agio e disporli positivamente nei nostri confronti (volendo essere minuziosi, l’esistenza di un protocollo del genere semplificherebbe l’oggettivazione dei risultati degli studi). L’osservazione che mi sento di fare in merito, è che la prima responsabilità del terapeuta sia quella di non avere nessun pre-giudizio e nessuna presunzione di controllo della situazione. Non è possibile impedire ad un paziente ansioso di avere l’ansia, o controllare il modo in cui si manifesterà. L’obiettivo a lungo termine è che il paziente impari a viverla come qualcosa di fisiologico, senza lasciarsi ingoiare da essa, e il nostro ruolo in questo senso è quello di essere il più possibile rispettosi e discreti nell’interfacciarci al sistema, cercando di facilitare questo processo senza intrometterci tra il paziente e la sua elaborazione di una strategia di guarigione.

 

Dal punto di vista dell’interazione, tutto dipende dallo stato emotivo del soggetto al momento della seduta: se dovesse presentarsi particolarmente provato, una buona soluzione potrebbe essere quella di limitare la conversazione al minimo. Essere cortesi ma concisi, anche nell’anamnesi, che potrebbe essere costruita poco per volta (mi rendo conto che la nostra professione ci richiede dati dettagliati e una conoscenza approfondita della storia clinica, ma essere rapidi ed evitare di focalizzare il discorso su esperienze potenzialmente traumatiche potrebbe essere fondamentale per permetterci di proseguire il rapporto terapeutico). Se chi abbiamo davanti è reticente o silenzioso, rispetterei il suo silenzio. La scelta del trattamento è a discrezione dell’operatore e, ovviamente, basata sulla condizione clinica, ma potrebbe rivelarsi produttivo un approccio possibilmente distante dalle aree legate alla “cascata ortosimpatica” dell’attacco di panico (in primis diaframma e area gastrica, in condizioni acute anche cranio, cervicale e stretto toracico superiore dovrebbero essere trattati con cautela particolare). Qualora un paziente dovesse avere un attacco di panico durante la seduta, mi sento di consigliare di permettergli di “passarci attraverso” anziché arginarlo o cercare di controllarlo per noi. Un’opzione potrebbe essere quella di limitarsi a chiedere: “Cosa vuoi che faccia?, e rispettare la volontà di chi abbiamo difronte, aspettando che ritorni in sé, per poi proseguire il trattamento se il paziente se la sente. Ci tengo a sottolineare che quanto scritto è unicamente frutto di considerazioni personali e ha l’intento di creare un dialogo, senza nessuna volontà dogmatica.

 

Ogni professionista vive diversamente il rapporto con il paziente, in base alla propria esperienza e alla propria sensibilità individuale ma, in conclusione, ritengo che in questo ed altri casi, l’impegno che ci viene richiesto in termini di empatia sia più grande: essere capaci di osservare senza interferire.

 

Alice De Laurentiis D.O.

 


Referenze

1 Dixon et al., “Effect of Osteopathic Manipulative Therapy on Generalized Anxiety Disorder”, JAOA, 2020.

2 Winchell, “OMT for the Treatment of Depression and Anxiety: A Pilot Study”, 2019.

3 Blumer T., Blumer J., ”Osteopathic Approach to Anxiety”, Osteopathic Family Physician, 2017.

4 D. J. Edwards, C. Toutt, “An evaluation of osteopathic treatment on psychological outcomes with patients suffering from chronic pain: A prospective observational cohort study collected through a health and well-being academy”, SAGE, 2018.

5 Castro-Sanchez, “Benefits of massage-myofascial release therapy on pain, anxiety, quality of sleep, depression, and quality of life in patients with fibromyalgia.” Evidence-Based Complementary and Alternative Medicine, 2011.

6 Saracutu, M, Rance, J, Davies, H., “The effects of osteopathic treatment on psychosocial factors in people with persistent pain: A systematic review.”, International Journal of Osteopathic Medicine, 2018.

7 Williams N. H., “Optimizing the psychological benefits of osteopathy.”, International Journal of Osteopathic Medicine, 2007.

8 Wiegand S. et al., “Osteopathic Manipulative Treatment for Self-Reported Fatigue, Stress, and Depression in First-Year Osteopathic Medical Students”, JAOA, 2015.

9 Ruffini N., D’Alessandro G., Mariani N., Pollastrelli A., Cardinali L., Cerritelli F., “Variations of high frequency parameter of heart rate variability following osteopathic manipulative treatment in healthy subjects compared to control group and sham therapy: randomized controlled trial.”, 2015.

10 Edwards D. J., Young H., Johnston R., “The Immediate Effect of Therapeutic Touch and Deep Touch Pressure on Range of Motion, Interoceptive Accuracy and Heart Rate Variability: A Randomized Controlled Trial With Moderation Analysis.”, 2018.

11 Fornari MCarnevali LSgoifo A., “Single Osteopathic Manipulative Therapy Session Dampens Acute Autonomic and Neuroendocrine Responses to Mental Stress in Healthy Male Participants.”, JAOA, 2017.

12 Henley C. E., Ivins D., Mills M., Wen F. K., Benjamin B. A.., “Osteopathic manipulative treatment and its relationship to autonomic nervous system activity as demonstrated by heart rate variability: a repeated measures study.”, 2008.

13 Rechberger V., Biberschick M., Porthun J.., “Effectiveness of an osteopathic treatment on the autonomic nervous system: a systematic review of the literature.”, 2019.

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